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  • Addressee:Filippo Pandolfini
  • Place:s.l.
  • Date:prima del 1478?
  • Source:BUB
  • Manuscript:Italiano

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43 - Vespasiano a Filippo Pandolfini.
[s.l.], [prima del 1478?].

Bologna, Biblioteca Universitaria, It. 1452, ff. 347-349.


Ed. Fanfani, pp. 143-147; Frati, pp. 327-332; Cagni, pp. 181-185.


Vespasiano a Filippo Pandolfini salute.
In questi dì passati ti scrissi per un'altra mia, e per quella ti mostrai la miseria et infelicità nostra, et quanto dalla vera via ci discostamo, e come a ogni cosa pensamo, e alla salute nostra no, come se a noi no<n> tochasse.
Parlai dipoi techo e mostrà<i>ti come tu ti disviavi anchora tu dalla vera via; erravi là assai, volendo tu che il vedere tu molti avere roba e chol mezo di quella avere onore e riputatione, e alegavi ch'e tua passati erano istati in questa medesima conditione, e tu essere volto a volere fare questo medesimo; et arguivi questo desiderio essere in noi naturale, e molto disputamo circha questo.
Mostrà<i>ti come questa tua ardente volontà <che> avevi tu, tutta procedeva dall'abito avevi fatto per lunga consuetudine, dove e del continovo lo seguitavi, a conversare con chi ti confermava in questa opinione, facendo lui quello medesimo. Ora, egl'è necessario ti mostri per questa mia lettera come dala nostra pura e senplice natura noi siamo inchinati naturalmente al bene; e se manchamento ignuno c'è, è da noi e dala corrotta natura, e none dalla semplice. La corrutione dela natura procede dalla cativa consuetudine o vogliamo dire usanza, dala quale si forma l'abito o buono, facendo le buone usanze, o cativo, dale cative.
E per questo, legendo in questi dì una pìstola di Sancto Girolamo, dove questa materia è trattata sotilmente, e trahertene altro frutto che dele pìstole di Tullio, e massime per la nostra salute, tutto il fondamento di questo edificio è o dela salute o dela dannatione nostra, e tutto dipende da' nostri principii nel piglare forma ala vita nostra: e questo istà, com'è iscritto di sopra, o dalla buona consuetudine o dala cativa. Ignuno peccato si comette per nicistà, ma per volontà nostra, nela quale è posto il volere o il no<n> volere, secondo che a llei pare; e mai pensa volere fare ignuno, che la non abi chi glelo niega, drento da sé no<n> lo facci; e questa volontà viene o più o meno, secondo o la buona o la cativa consuetudine hai fatta. E non sia ignuno si scusò, avendoci Iddio creati a fine che tutti ci salviamo e accioché noi none incolpiamo la bene ordinata natura, o che noi conosciamo questo essere dalla volontà nostra volontario, e none isforzato.
Ora, sendoci alcune cose molte oscure, m'ingegnerò falle più chiare potrò. Legesi nel Genesis che Simeone, Levi e frategli avevano consumata, cioè compiuta, la loro volontà per la sua iniquità. Iddio parla agl'abitatori di Gerusaleme e dice: Perché gl'hanno lasciate le mia vie, le quali io posi inanzi alla loro faccia, e non hanno exaudita la voce mia, ma sono andati dopo la volontà de<l> loro reo cuore. E il Profeta dice: Voi avete pechato inanzi, e none avete udita la voce sua, e i sua comandamenti none avete voluti fare. Anchora Isaia parla in nome di Dio e dice così: Si voi vorete e con efecto me udirete, voi mangerete i beni che la terra produce; ma se voi no<n> mi udirete, sarete consumati e morti. A questo medesimo <modo> parla Iddio a Gerusalemme e dice: Jerusalemme, Jerusalemme, che occidi i profeti e lapidi choloro i quali ti sono mandati, quante volte ho io voluto ragunare i tua figlioli come raguna la gallina i sua pulsini sotto l'alia, e non hai voluto!
Dove adunche noi vegiamo volere e non volere, elegere e rifiutare essere nella volontà nostra. Qui si conosce non essere se none dalla libertà nostra, e none forzato, perché le elecioni è in noi proprii.
Molti sarebono gl'esempri si potrebono inducere circha questo medesimo, e sonne pieni tutti i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, dove si mostra il bene e il male essere dalla volontà nostra. E così, se l'attribuisce overo si le concede, o veramente che noi difendiamo e non concediamo il bene della natura, in tal modo, che cho' cussì chom'ella può fare bene, il simile ela possi fare male, essendo capace chosì del bene come del male; ma solamente la difendiamo da questa ing<i>uria, che pel vicio di lei al male fare noi siamo isforzati: i quali o bene o male, sanza la volontà nostra - nela quale volontà è sempre il potere fare o l'uno o l'altro - n'abiamo libertà ed in noi istà. Ond'è egli che alcuni giudicheranno e alcuni saranno giudicati, se none che in una medesima natura è la volontà? E bene che tutti possiamo adoperare a mio medesimo modo, no<n>dimeno questo, noi non facciamo il bene per avere fatto l'abito cativo che alquanto ha mutata la natura nostra nel operare, a farsi più tardi al bene e più prompti al male: con tutto che questo no<n> muta la natura, ma falla più tarda nel operare.
E a fine che questo più chiaro si vegga, lo mostreremo per qualche esempro. Adamo fu del paradiso caciato ed Enoche fu cavato del mondo e messo in paradiso. In ciascuno di questi dua Iddio ci dimostra la libertà delo albitrio, imperoché come poteva piacere cholui che pechò, così poteva pechare colui che piaque, e none altrimenti dal giusto Iddio cholui meritò d'essere punito, e cholui - cioè Enoche - d'essere eletto. Ognuno di loro il bene e 'l male poteva operare.
Per ignuna altra cagione a noi è difficile fare il bene, se none per l'usanza di vicii e de' pechati, avendone fatta lunga consuetudine: la quale consuetudine abiamo cominciata dalla nostra pueritia, a pocho a pocho seguitando per molti anni, avendo corotta la natura. Avendo fatta questa maladetta consuetudine, chol tempo ci tiene tanto istretta e legata, che pare che la mala usanza abbi tanta forza in noi, quanto se la fusse un'altra natura: tutto questo tempo il quale negligentemente abiamo passato e nel quale ci siamo ingegnati essere rei, nella quale ha provocato la malicia e la inocentia, ed era riputata istoltitia. Quando poi vogliamo fare alcun bene e fare resistentia al male, ed egli ci dà bataglia contro alla nuova volontà ne' resistere al male, combatte la vechia usanza de' vizi che noi abiamo fatto habito. E noi ci maraviglamo che, vivendo noi otiosi sanza ignuna virtù, e voremo ci fusse data la santità quasi da altri e none da noi, che avendo noi imparato a fare male, ignuna usanza abiamo di fare alcun bene.
Infino a qui del bene e forza dela natura nostra mostro <ho> quello possa il bene e 'l male, e che tutto è della propria volontà nostra. E questo è necessario avere mostro, per levare via tutto quello potevi allegare in tua difesa e per fare la via della giustitia più piana e più aperta, accioché per quella tu possi più facilmente andare, conoscendo in quella non essere ignuna cosa difficile o aspra a fare. Con ciò sia cosa che molti nella legge della natura, inanzi che Moisè l'avesse da Dio, il mondo si governò sanza legge che furono anni dumila o più che 'l mondo si governò chola legge naturale, cioè che quello gli dava la natura vi furono molti visseno sanctissimamente e operorono ogni ispecie di virtù. Quanto istimi tu ora, dopo l'avenimento del Unigenito Figluolo di Dio, si debbe istimare e credere che noi possiamo fare quello medesimo o più <che> no<n> fecio<no> quegli sanza legge e sanza quella gratia abiamo noi al presente, d'essere ricomperati e riformati? Essendo per lo suo precioso Sangue purgati e mondati, e per lo suo exemplo alla perfetta vita siamo provocati e confortati; e per questo debiamo essere molto migliori che no<n> quegli furono inanzi alla legge: e però dice l'Apostolo che 'l peccato non debbe signoreggiarci né avere potentia in noi, perché noi non siamo sotto la legge, ma sotto la gratia.
Tu ha' veduto per quante potente ragioni s'è provato per Sancto Girolamo che il bene e il male bisogna proceda da noi. Se noi opreremo bene, secondo si conosce il potere essere in noi, ne seguiterà la nostra salute; facendo l'oposito dela quale cosa Iddio ci liberi ne seguiterà la nostra eterna dannatione: dela qual chosa l'onipotente Iddio ci liberi.
Più obrigho ha' tu nel divino cospetto di Dio <che> non arà un altro, ave<ndo> tu avuto chi t'ha a questo confortato e colle <pa>role a voce viva, e chole lettere. Istima che sono molti che, se avessino avuto questo mezo, non sarebbono <incor>si negl'erori sono. E se tu vi se' incorso che non lo so e tu <sei> tornato di poi a emendarti de' tui erori, non solo ti bisogna <nel> bene il perseverare, ma purghare i pechati hai fatti <inan>zi tu sia emendato: ma pùrgagli nel divino conspecto.
<A>dio. Legi questa epistola atentamente e pensala bene, <per>ché è piena di gravissime sententie.

  • Lettera 43 e Filippo Pandolfini

    Per l'identificazione del destinatario si leggano le parole del Cagni: "nel Quattrocento erano quattro i Pandolfini di nome Filippo. Uno va subito escluso, perché nato troppo tardi: è Filippo di Battista di Giannozzo Pandolfini e di Caterina Strozzi, nato nel 1497 e morto nel 1559 [...]. Anche il secondo va escluso, perché morto troppo presto: è Filippo di Carlo d'Agnolo Pandolfini e di Giovanna Giugni, nato nel 1420 e morto il 1 luglio 1454 [...]. Ne rimangono altri due: Filippo di Domenico di Carlo Pandolfini e di Francesca di Matteo Morelli, nato nel 1461 e morto nel 1538; e Filippo di Pandolfo di Giannozzo, Pandolfini e di Costanza di Giovanni Guicciardini, nato nel 1456 e morto li 24 agosto 1478. Penso che il destinatario sia quest'ultimo. Infatti dalla lettera risulta che Vespasiano ha avuto con lui frequenti conversazioni spirituali, atte a orientarne cristianamente la vita. Ora, io credo che sia lui quel giovane di buona volontà che richiese Vespasiano del trattato De la vita e conversatione de' cristiani e che morì immaturamente, prima che l'opera fosse terminata. Se l'ipotesi è giusta, la lettera è stata scritta prima del 1478" (Cagni, Vespasiano, p. 181, n. 1).